Iniziamo questa nuova avventura con il racconto di Davide, un ragazzo FtM seguito dalla nostra Associazione.
Ammetto di essere rimasto stupito quando mi è stato detto per la prima volta che non capita spesso di trovarsi di fronte una persona che a inizio della terapia sceglie già di adottare i pronomi opposti e un nome diverso.
Eppure non posso nemmeno dire di aver fatto una scelta consapevole. Non si tratta di un punto di arrivo di un ragionamento maturato nel corso del tempo, ma piuttosto di una scelta inconscia, e proprio in quanto tale penso sia interessante spiegare il mio punto di vista a proposito.
Ho sempre visto l’inizio del percorso di affermazione di genere come un momento di svolta della mia vita, in cui avrei finalmente potuto svestire i panni un po’ stretti e scomodi della persona che ero stato fino a quel momento e indossare un’uniforme nuova di zecca, quella dell’identità che avevo tanto sognato di potermi plasmare, più adatta al mio modo di pensare, di sentire, di vivere. Nemmeno tra me e me, nella privacy dei miei stessi pensieri, usavo i pronomi maschili per parlare di me stesso. Non era un modo di rifiutare l’idea, un elemento di vergogna o qualcosa di simile, ma era come se li conservassi per un momento speciale. E la cosa peculiare è che questa situazione si è protratta per un intero anno dopo aver parlato ai miei amici della mia intenzione di iniziare il percorso. Ho sempre detto loro che avrei preferito fare “tutto in una volta”, e loro hanno sempre capito e assecondato le mie richieste. Non mi ero mai soffermato a pensare al motivo per cui lo stessi facendo, e ancora adesso non penso di essere in grado di articolarlo.
Ripensandoci in un secondo momento mi rendo conto che forse il pensiero di fondo che ha accompagnato questa mia decisione è un po’ quello che porta molte persone cisgender a non comprendere del tutto la questione: la convinzione che sia necessario un passaggio obbligato per considerarsi “ufficialmente” trans.
Ora so anche io che non è così, una persona transgender non inizia a essere tale nel momento in cui varca per la prima volta la soglia di uno studio di una psicoterapeuta o nel momento in cui pronuncia per la prima volta dei pronomi maschili o femminili, o ancora nel momento in cui per la prima volta si sente chiamare con il suo nuovo nome. Si tratta di qualcosa di molto più profondo, e che risulta estremamente difficile rendere come idea per qualcuno che non l’ha mai sperimentato sulla propria pelle. Una serie di dettagli sparpagliati nel corso degli anni, molto prima di arrivare a stringere la mano con se stessi e giungere alla conclusione di essere trans, che vengono a combinarsi alla fine come pezzettini di un puzzle: io da piccolo all’asilo non volevo solo divertirmi con i bambini maschi o con i giochi con cui giocavano loro, ma volevo davvero con tutto me stesso essere uno di loro; quando si facevano le recite scolastiche non mi piaceva che mi venissero dati ruoli di personaggi femminili, perché non mi sembrava fossero adatti a me, e mi sarebbe piaciuto cogliere l’occasione per vestire i panni del re, invece che della principessa. Non penso che nella mia situazione sia esagerato dire che già da quei momenti, parecchi anni prima di iniziare il percorso, potevo tranquillamente essere considerato una persona transgender, senza alcun bisogno della “ufficialità” di cui parlavo prima e senza nemmeno il bisogno di esserne consapevole in prima persona.
In ogni caso, ho sempre dato per scontato di iniziare ad adottare la mia nuova persona con l’inizio della terapia, per una questione di ordine mentale, ma sarebbe un errore pensare che valga per tutti lo stesso. Il bello di un percorso del genere è che non può essere ridotto a un sterile susseguirsi di tappe, perché ogni persona è diversa e lo vive in modo diverso, con sensazioni diverse e soprattutto tempi diversi.
Ovviamente non posso permettermi di parlare a nome di altri, quindi devo attenermi alla mia esperienza personale, e tutto quello che posso dire è che questi tempi dipendono in buona parte anche dall’ambiente che ci circonda. Ho sempre avuto la fortuna di trovarmi di fronte a familiari e amici che mi hanno dimostrato un supporto incondizionato, spesso superando le mie aspettative, e questo ha contribuito a convincermi che non ci sarebbe stato alcun problema a cambiare all’improvviso il loro modo di rivolgersi a me, di chiamarmi per nome e di “concepirmi” come del genere opposto. Non so come sarebbe cambiato il mio approccio se mi fossi trovato di fronte più resistenza, ma posso dire con certezza che, banalmente, non sarebbe stato altrettanto facile e non sarei riuscito a vivere positivamente questo momento della mia vita come invece sto facendo ora. In conclusione, se dovessi cercare di estrarre una sorta di morale dalla mia esperienza vorrei sottolineare l’importanza che in questo percorso hanno “gli altri”.
È essenziale sapere di poter contare su sé stessi, ma è altrettanto importante avere intorno un ambiente che sia capace di aiutare chi fa un po’ più di fatica a reggere tutto il peso da solo. E non sempre queste persone riusciranno a capire tutto e subito, ma si può biasimarle? Io mi sono trovato in questi mesi a rispondere a domande, a curiosità, a sentire i miei amici e i miei familiari sbagliare in continuazione e correggersi ancora più spesso, ma l’impressione che esce da tutto questo è quella di una crescita collettiva, e forse questa è una delle cose più belle che si possano chiedere.
Davide