Nel linguaggio cinematografico (e del teatro anche) si chiama quarta parete, e l’azione del rompere la quarta parete è quando l’attore esce dalla finzione della scena per rivolgersi direttamente allo spettatore o per osservare la scena di cui è parte, in maniera critica. Sono tante le metafore che mi vengono in mente quando penso ai mesi che sono trascorsi e a cosa hanno significato per me – ma oggi questa è quella che trovo più calzante. Mi sentivo all’interno di una finzione di cui non avevo il pieno controllo, ero diretta da una parte terza che talvolta negli anni mi aveva regalato conforto, sicurezza, un nido da cui però non riuscivo a uscire quando avevo voglia. E di conseguenza ero spettatrice di una parte della mia vita che è essenziale, quel personaggio non era finzione, ero io e doveva rispecchiare quello che sentivo dentro. Era arrivato il momento di affrontare le paure che sembravano insormontabili, le insicurezze paralizzanti. Così ho iniziato a guardare ai cm davanti ai miei piedi, a trascinare piano piano i piedi cm per cm in avanti senza guardare troppo in là. E i cm sono diventati km. Le insicurezze e le paure sono sempre là, anzi forse se ne sono create di nuove e sono certa che ancora altre ne arriveranno. La differenza è che sto lavorando a imparare ad abbracciarle, a trasformarle in energia positiva e – spesso – a non pensarci troppo. Perché l’altra differenza è che ora sono più consapevole del fatto che più penso alle paure e alle insicurezze e più diventano sproporzionate. Quindi le proporzioni sono diventate dei cardini del mio scenario, ed è ora evidente che non parlo solo di quelle di seno, vita, fianchi.
Floriane